I droni con defibrillatore sono realmente efficaci? Se si, quando potranno diventare una realtà impiegata sistematicamente su larga scala?
Ospitiamo un parere su un argomento che periodicamente torna alla ribalta della cronaca, ovvero la questione dei droni dotati di defibrillatore. Sono veramente efficaci come promettono? Gian Francesco Tiramani, progettista e gestore di centrali operative del soccorso, co-progettista del sistema di Elisoccorso in Italia (1985), soccorritore BLSD, progettista e gestore di servizi di aeroambulanza in diversi Paesi e anche operatore e pilota SAPR, ci ha inviato la sua opinione in merito che volentieri pubblichiamo di seguito.
"Negli ultimi tempi i media riportano con enfasi diverse iniziative nelle quali i droni vengono proposti per attività di soccorso sanitario, in particolar modo per contribuire con la defibrillazione precoce a ridurre la mortalità nei casi di “Morte Cardiaca Improvvisa”. È però doveroso, vista anche la delicatezza dell’argomento, fare chiarezza sulla questione anche per non rischiare di veder frustrate aspettative legittime che hanno a che fare con la salvaguardia della vita stessa.
I numeri di riferimento sono più che eloquenti: la Morte Cardiaca Improvvisa è responsabile del 10% dei decessi che si verificano ogni anno in Italia e rappresenta oltre il 50% di tutte le morti causate da patologie cardiache. Nel nostro Paese, però, solo il 2% dei pazienti colpiti da arresto cardio-circolatorio sopravvive, in conseguenza del fatto che il tempo medio d’intervento dei soccorritori è di poco inferiore ai 20 minuti (che è anche il limite massimo previsto dalla normativa nazionale per portare soccorso nei codici più gravi).
Per entrare più precisamente nella questione “tempestività” i minuti entro i quali si rende indispensabile intervenire per scongiurare danni irreparabili sono davvero pochi. Nel primo minuto dall’evento, infatti, le possibilità di sopravvivere in questi casi si abbassa già del 10%; dopo 5 minuti si riduce addirittura al 50%; per questo sono più del 70% i pazienti che perdono la vita prima del loro arrivo in una struttura ospedaliera.
Tra tutti gli eventi che provocano l’arresto cardiaco ben l’85% è collegato alla “fibrillazione ventricolare”; per questa patologia abbiamo fortunatamente a disposizione una terapia molto efficace (peraltro l’unica) che è la defibrillazione precoce, accompagnata dalle manovre di Rianimazione Cardio-Polmonare (RCP); defibrillazione che si attua mediante presidi elettromedicali che hanno subito un’evoluzione molto importante nel tempo, con conseguente adeguamento delle norme per poterli utilizzare. Intervenire in pochi minuti significa avere disponibili i defibrillatori (definiti anche DAE) e le persone in grado di utilizzarli, a breve distanza dal luogo in cui si trova il paziente.
Fino a una ventina d’anni fa questi apparecchi erano presenti solo all’interno degli ospedali (non esisteva un vero sistema di emergenza-urgenza extra ospedaliera) ed erano utilizzabili esclusivamente da personale medico che era chiamato sia a valutare in prima persona se il suo uso fosse opportuno che a decidere la potenza della scarica da rilasciare. Fortunatamente la tecnologia avanzava velocemente e negli anni ’90 cominciavano ad essere disponibili defibrillatori semi-automatici, ovvero in grado di valutare autonomamente i segnali elettrici del paziente per indicare la necessità della scarica che poi viene regolata direttamente dal DAE stesso: questo significava che il loro utilizzo poteva essere allargato anche a personale non medico (cosiddetto “laico”) che poteva essere qualificato con una formazione di poche ore (come avviene ancora oggi).
Ho avuto la fortuna di partecipare in prima persona a questa fase pionieristica durante la quale abbiamo rischiato molto (non essendo medici) visto che potevamo essere imputati di “esercizio abusivo della professione medica”, ma volevamo con forza stimolare il legislatore ad intervenire quanto prima. Ecco quindi la legge 3 aprile 2001, n. 120, che ha disciplinato l’utilizzo dei defibrillatori semiautomatici in ambiente extra ospedaliero, consentendo l’uso del DAE in sede extra ospedaliera anche al personale sanitario non medico. Da allora è iniziata quindi una costante attività di informazione e formazione che ha portato come conseguenza un numero sempre più alto di DAE e di operatori abilitati ad utilizzarli, distribuiti capillarmente sul territorio (con il mio personale orgoglio per Piacenza che è stata la capostipite della storia dei DAE con il “Progetto vita” ed è ora la città più cardio-protetta d’Europa).
Non appena i droni si sono affacciati nella nostra vita quotidiana è stato naturale per chi si occupava di soccorso coglierne la potenzialità proprio in questo ambito nel quale, come abbiamo visto, la tempestività d’intervento significa vite salvate o meno. L’obbiettivo di oggi con l’impiego dei droni sembra essere duplice: da una parte ridurre i tempi per fare arrivare il DAE accanto al paziente e dall’altra poter evitare in qualche modo la necessità sul luogo dell’evento di personale preparato ed abilitato ad usarlo.
Uno dei primi studi organici è stato quello olandese di TU Delft presentato come “Drone ambulanza” e anche nel nostro Paese negli ultimi mesi abbiamo letto di progetti simili in Veneto, Puglia ed Emilia
Romagna. ( ndr: leggi anche l'articolo da noi pubblicato nel 2014 a cura dello stesso Gian Francesco Tiramani: Il Drone Ambulanza)
Ma quanto questi progetti possono tradursi in realtà a breve?
Il trasporto in sé di un payload come un DAE non è un grosso problema (e neppure la connessione audiovideo bidirezionale) e le sperimentazioni citate penserebbero di evitare la presenza di personale sul luogo dell’evento grazie appunto ad una comunicazione audio e video tra il drone (e l’ambiente in cui è inserito, compreso ovviamente il paziente) ed il personale remoto delle centrali di soccorso che avrebbero la situazione sotto controllo, in grado – quindi - di effettuare le valutazioni del caso e di prendere le decisioni conseguenti, stando appunto nei centri di controllo e comando.
Questo, però, non può essere praticabile concretamente oggi per almeno due serie di considerazioni:
a) Il solo rilascio elettriche delle scariche del DAE per riattivare la funzionalità cardiaca non è
sufficiente al ripristino delle condizioni vitali in quanto la defibrillazione precoce fa parte del protocollo complessivo BLSD (Basic Life Support & Defibrillation) che comprende anche le manovre per la rianimazione cardiopolmonare (massaggio cardiaco esterno e respirazione artificiale) che qualcuno deve attuare sul posto, con competenza.
b) Dal punto di vista normativo la questione della valutazione e della decisione in “remoto” va adeguatamente contemplata e disciplinata. Tornando più specificatamente alla questione “droni” è del tutto evidente che esistono problemi da affrontare in almeno tre ambiti che si intersecano tra di loro:
- Quello tecnologico aeronautico che riguarda la possibilità di compiere missioni verso destinazioninon conosciute a priori, con le implicazioni delle tecnologie anticollisione "sense and avoid" (anche per ostacoli mobili). Proprio il progetto iniziale di Amazon Air che puntava alla consegna delle merci direttamente a casa del destinatario è – per ora – ripiegato sul trasporto tra una base conosciuta di partenza ed una base altrettanto conosciuta di destinazione.
- Quello sempre tecnologico ma anche normativo che riguarda la compatibilità elettromagnetica del drone nei confronti del DAE (rischio di gravi interferenze). Ricordo che situazione analoga si è presentata quando abbiamo iniziato ad utilizzare i defibrillatori in ambito aeronautico su elicotteri ed aerei di soccorso.
- Quello normativo legato a questioni di aero navigabilità e di inserimento nello spazio aereocondiviso con i mezzi manned.
La strada, quindi, non è proprio semplice ed immediata come può apparire dalla comunicazione degli ultimi mesi ma va certamente percorsa, con competenza e costanza perché i benefici che ne potranno
discendere, per tutta la collettività, sono impagabili. "
Gian Francesco Tiramani - info@skyview.uno
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